Articoli- Emiliana Lucchesi

Emiliana Lucchesi

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La Barca del Forte dei Marmi 
"bubble's Italia" - aprile 2020
E’ uno dei ristoranti prediletti di Andrea Bocelli quando è in Versilia ma anche di Julien e Mireille Destouches, parigini che hanno il loro buen retiro in una villa nascosta nel verde proprio a fianco di quella del celebre tenore nostrano. La Barca fa parte della storia di Forte dei Marmi. Anzi. La Barca "è" la storia di Forte dei marmi. Basti dire che approdò letteralmente, più o meno dove si trova oggi, di fianco al bellissimo pontile dal quale si può ammirare l’imponente profilo delle Alpi Apuane. E qui si sconfina nella leggenda. Sembra che Leo Tacchella, nel lontano 1906, il comandante della modesta “tartana” che trasportava vino dall’isola d’Elba alla (allora non ancora celeberrima!) costa toscana, abbia deciso di "tirare i remi in barca". Di fermarsi, insomma. E di gettare le basi per quello che sarebbe poi diventato un vero e proprio ristorante. E che ristorante! Il tempo scorre veloce, le gestioni si susseguono senza sussulti o impennate. Ma dagli Anni Sessanta "La Barca" appartiene alla famiglia Petrucci, famosa dinastia di ristoratori versiliesi. Il tempo scorre veloce. E la clientela cambia, anch’essa velocemente. Dai cantanti famosi che animavano le languide notti della Versilia degli "anni ruggenti" oggi la parte del leone la fanno principalmente gli arabi e i russi. La Barca è un luogo magico. Il mare non si vede, ma s’intuisce e se ne sente l’inebriante profumo. Piero Petrucci è da sempre il gallonato ammiraglio di questo ristorante, anche se ormai da anni lo affianca il figlio Sasha, una laurea in giurisprudenza in un cassetto per seguire le orme paterne. Ai fornelli, invece, da molti anni, c’è Claudio Nicolini, chef tanto talentuoso quanto schivo e riservato. La sua cucina è una cucina affascinante dai sapori netti e scanditi, sicuramente all’insegna della tradizione. E la cucina della tradizione quando è buona, è buona senza se e senza ma. Fra i piatti simbolo di questo storico ristorante spiccano il cacciucco e il baccalà in diverse declinazioni. L’inarrivabile baccalà di Claudio Nicolini non ha nulla a che fare con i vari baccalà marinati da osteria, fatti apposta per berci su a gola spiegata. Viene fatto crogiolare in una finissima salsa di pomodoro inorgoglita e vivacizzata da una spruzzata di aceto e servito con spicchi di patate al vapore e aghi di rosmarino. Eppoi il cacciucco! Oh, il cacciucco! Rigorosamente con cinque "c" è sempre in carta e non è nemmeno lontano parente della zuppa di pesce popolare e popolana dei pescatori livornesi. Il "crudo di pesce", poi, non ha rivali ed è uno dei migliori della costa. Così come il monumentale e sontuoso "fritto misto di paranza" accompagnato da goduriose e croccanti verdurine di stagione assortite. Imperdibili le bavette aglio, olio, ginger e battuta di gambero rosso crudo. Impeccabile la carta dei vini che Piero Petrucci cura personalmente e che accoglie il meglio dell’enologia italiana con una bella selezione di blasonati francesi. Insomma La Barca resta da anni un approdo sicuro per chi ama la buona tavola senza timore di sorprese negative.


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Dove mangiare a New York: ristoranti e diner nella  grande mela
"Life & people Magazine" - agosto 2019
Niente è più vorticoso della ristorazione nella metropoli che non dorme mai per definizione, New York. La Grande Mela ha un turn over davvero unico: i ristoranti che passano di mano o che cambiano indirizzo o location sono all’ordine del giorno. Eccezion fatta per alcune tavole che si tengono miracolosamente in sella (e che figurano da qualche anno nella inossidabile top ten metropolitana come Jean George, Le Bernardin, Madison Eleven e Alain Ducasse, dei pionieri che hanno fatto grande la ristorazione newyorkese esiste ormai solo il ricordo ammantato di leggenda. I loro nomi sono Sirio Maccioni (Le Cirque), Tony May (San Domenico), Julian Niccolini (Four Season) e Nicola Civetta del Primavera. Che comunque hanno resistito per un bel trentennio abbondante. Tutti decimati dagli affitti stellari della City. Della eroica vecchia guardia è rimasta in piedi solo Lidia Bastianich (col suo Felidia, sulla 58a East Side) affiancata dal figlio Joe che ha aperto il mitico "Del Posto”, in zona Chelsea. Quello che colpisce immediatamente di questo sfavillante locale di Chelsea sono i grandi tavoli ben distanziati e comodi, decisamente inusuali a New York dove i (centi)metri quadrati vengono sfruttati all’inverosimile. Un tempo a Chelsea Market c’erano un gran numero di macellerie ma adesso il quartiere è molto cambiato ed è assai ambito da stilisti, artisti e intellettuali. In Usa Lidia Bastianich è una star. Donna di grande temperamento e umanità, Lidia è sempre disponibile con semplicità e generosità d’animo. La sua cucina le assomiglia: ha carattere e personalità. Un piatto cucinato da Lidia (e dal suo chef storico Fortunato "Dodo" NIcotra) può essere semplice, ma mai banale. La sua zuppa di zucca con broccoli e ricotta di bufala è un piatto di una semplicità esemplare, ma ha un equilibro di sapori incredibile. Ma se siete a Manhattan e vi "punge vaghezza" di un piatto di spaghetti alle vongole fatto a regola d’arte puntate come un sol uomo su “La Masseria” in pieno Theater District, West Side. La linea di cucina è dettata da quel geniaccio dei fornelli che è Pino Coladonato, come accade pure a La Masseria dei Vini ( sempre West Side, sulla Nona Avenue) e sull’ultima -in ordine di tempo- Masseria, aperta in Florida. Coladonato e gli altri due soci Giuseppe Iuele e Vincenzo Ruggiero accolgono gli ospiti in maniera informale e simpatica. Un modo di fare, a quanto pare, molto apprezzato e gradito dalla clientela e che fa subito “italian style”.I calamari di Pino, impanati e intinti in una gustosa salsina di pomodoro gradevolmente piccantina, vanno letteralmente a ruba! Si celebra il nostro way of life anche al Manducatis di Long Island City, il cui nome è la storpiatura del termine latino “manducanti”, mangiatori. Quando Veronelli scoprì questa bella e fascinosa trattoria, nominò Ida Cerbone, la cuoca- proprietaria, ipso facto, “Best woman chef of the year”! Stessa musica anche al “Sandro’s”, Upper East Side , sulla 81a. Sandro Fioriti, 120 chili di italica simpatia, vanta una lunga carriera lastricata di successi. Il piatto che lo ha reso celebre è un piatto da andar giù di testa, ravioli ai ricci di mare, che ancora oggi propone nel suo locale il cui segno distintivo è una tenda di uno squillante giallo canarino, che si annuncia a lontano. Qualcuno si chiederà, tutta qui la ristorazione dell”’ombelico del mondo”? Chiaro che no! Manhattan vanta una lunghissima litania di ristoranti etnici: giapponesi, cinesi, thai, greci, turchi, marocchini, russi e…..fusion! Da segnalare in area Chelsea Market, Morimoto; Buddakan e Momo-fuku dove si mangia senza tovaglia in atmosfera simpaticamente informale e senza problemi. “Estela” vanta un cuoco uruguaiano che adopera ingredienti mediterranei e italiani di buon livello. Una sosta da fare assolutamente per i palati curiosi? Katz’sdely, per inarrivabili panini pastrami. Al Katz’s è stata girata la celeberrima scena del sesso mimato nel film “Harry ti presento Sally".


 I vini italiani: l'eccellenza del bere 
 
"Life & People Magazine" - agosto 2019
Lo standard qualitativo dei vini italiani s’è elevato parecchio negli ultimi 4-5 decenni, prima di tutto perché sono migliorate le tecniche agronomiche, di cantina e di vinificazione. Le novità più eclatanti riguardano soprattutto i bianchi. Ma dopo che fino a qualche anno fa il consumatore rincorreva i bianchi giovanissimi –anzi, ancora in fasce- ora c’è la scoperta dei bianchi longevi. André Tchelistcheff il grande enologo californiano di origini russe dopo aver assaggiato un vino disse: “E’ la quarta volta in ottant’anni e più, che m’inginocchio davanti a un vino!”. Il vino in questione era un pinot bianco dell’Alto Adige di Giorgio Grai, che aveva oltre vent’anni ed era ancora fresco e godibilissimo. A Grai, un monumento della nostra enologia, si deve anche la rinascita del Verdicchio, la cui migliore espressione --probabilmente- si manifesta nel Villa Bucci. Il verdicchio di Ampelio Bucci, gentiluomo marchigiano-milanese, sfida tranquillamente il passare degli anni ed è uno dei bianchi italiani più longevi. Villa Bucci compete, ad armi pari, con i più grandi vini bianchi del mondo (Borgogna compresa) e fra i suoi vanti c’è quello di aver dato, a suo tempo, un bello scossone alla sonnolenta enologia marchigiana. Fra i padri fondatori del rinascimento vinicolo nazionale ci sono sicuramente Mario Schiopetto, che dalla sua Capriva, nel Goriziano, ha fatto scuola e aperto nuovi orizzonti per moltissimi dei suoi seguaci. In Piemonte un plauso postumo va a Giacomo Bologna, che con le sue brillanti intuizioni e i suoi devotissimi pellegrinaggi nel Bordolese ha firmato il riscatto della barbera, che da vino allegro e disinibito da bere a gola spiegata nelle osterie è diventato un rosso che è un importante punto di riferimento per il vino italiano di qualità. Il Bricco dell’Uccellone è un rosso imperioso, maschio e possente che si fa ricordare a lungo. Oggi sono i suoi figli Raffaella e Giuseppe, entrambi enologi, che hanno raccolto il testimone e raggiunto nuovi e importanti traguardi qualitativi. Il marketing è nelle solide mani austro-ungariche di Norbert Reinisch. Sempre in terra piemontese non si può non citare Bruno e Marcello Ceretto, i “Barolo brothers”. Ma anche loro, nella bella villa di fine Ottocento, La Bernardina, oltre ai loro grandissimi e blasonati rossi producono vini bianchi di qualità come il Monsordo (viognier in purezza) e il Blangé, uno chardonnay che ha avuto uno strepitoso successo di mercato. In Lombardia Maurizio Zanella ha rivoluzionato le glorie delle bollicine nostrane col suo Ca’ del Bosco, sia nella versione Cuvée Prestige che nella riserva dedicata alla madre, Annamaria Clementi Zanella. Succede talvolta che un vino possa diventare un mito. E’ accaduto col Sassicaia, il grande rosso, taglio bordolese, nato in quel di Bolgheri. Il padre di questo leggendario vino toscano è Giacomo Tachis, al quale si deve anche il successo di altri 2 grandi nettari toscani, il Solaia e il Tignanello. Oltreché in Toscana il colto Tachis, ha rivoluzionato pure l’enologia delle nostre due isole maggiori, la Sicilia e la Sardegna. La figlia Ilaria, figlia di cotanto padre, oggi produce il Pargolo, e il "Giacomo" un merlot in purezza dedicato al padre. “Last but not least”, Tachis ha firmato una eccellente Vernaccia di San Gimignano per Casale Falchini. Il fascinoso Casale Falchini era sede di un convento di religiosi e pare che la “tosta” Vernaccia di un tempo fosse assai apprezzata anche dal pontefice Paolo III Farnese. I proprietari sono oggi i figli del fondatore Riccardo Falchini, Michel e Christopher. Altri gioielli firmati Falchini-Tachis sono 2 rossi di vaglia, il Campora, un superbo e imperioso cabernet corretto con appena un pizzico di sangiovese; e il Paretaio, sangiovese e merlot. Nunc est bibendum!

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La Dogana
"Il Corriere vinicolo" - settembre 2004
 
Sarebbe dovuto diventare un elettricista e invece…E invece, per fortuna, ha scelto di mettersi ai fornelli. Per la verità in principio era la pizza. Di tutti i tipi. E di quelle fatte a regola d’arte. Con gli ingredienti giusti, la mozzarella che arriva da Mondragone, i pelati di prima qualità, l’olio di frantoio e il basilico della Riviera. Questo ragazzone baffuto e col sorriso contagioso, ha cominciato come tanti altri ma, a differenza di altri, è diventato bravissimo. I suoi l’avevano mandato a fare “la stagione” all’Eden, a Viareggio, un locale di livello, sull’elegante lungomare in mezzo a negozi prestigiosi. Era un locale di moda, a quei tempi. Poi era passato a “La Cantina”, altro locale glorioso del tempo che fu e intanto che imparava a fare pizze, focaccine e calzoni cercava la sua strada e sognava. Sognava di aprire un locale tutto suo, dove poter dare libero sfogo alla fantasia ai fornelli e stare a contatto col pubblico. L’occasione si presentò nel giugno del 1975. Davano in gestione un bar con la sala da biliardo e la licenza dei tabacchi. La posizione, sulla trafficatissima via Sarzanese, la clientela in pratica c’era già, si squartucciava sul serio e si giocava a briscola. Vittoriano Pierucci fece il gran salto, insieme con l’amico di sempre Sauro Pardini. Per prima cosa, la prima novità fu un bel forno in muratura per fare pizze e focaccine, fragranti e condite a dovere. L’entusiasmo c’era, il lavoro cominciava a dare i suoi frutti. Il biliardo sparì e cominciarono a entrare nel menu i primi veri piatti cucinati, piatti della più nobile tradizione locale: tordelli, grandi arrosti misti, e, soprattutto il fritto alla toscana con pollo, coniglio, costolone d’agnello, cervella, carciofi, zucchine e via così, giacché, da queste parti si dice che fritti sono buoni anche……gli stecchi. La breve stagione con socio finisce e Vittoriano più motivato che mai (nel frattempo s’è sposato con Lidia e sono nati Daniele e Barbara), batte nuove strade. Arriva il pesce. Viareggio non è lontana, il mercato ittico è ricco e ben fornito. Del ragazzo di un tempo, che combatteva la timidezza a colpi di bicchieri di vino, quasi non c’è più traccia. Oddio, il vino ha sempre un posto d’onore, beninteso. Ma Vittoriano ha fatto i corsi dell’Ais, e così pure il figlio Daniele che ora guida il servizio in sala e cura la carta dei vini. E dunque l’approccio al vino è più maturo e consapevole. Come dire: non quantità, ma qualità. E ora per assaggiare i piatti di Vittoriano, che in cucina ha un validissimo e talentoso aiuto, Riccardo Pardini, la gente arriva a frotte da Firenze e da Milano. Beninteso: la pizza c’è ancora, Vittoriano la propone anche come piccolo appetizer, e la manda in tavola tagliata a piccoli spicchi insieme con una flute di bollicine o con un bicchiere di rosso. Ma poi arrivano la panzanella di mare (col tonno), le cozze gratinate, il carpaccio di riccola, il tortino di acciughe e zucchine, e gli spaghetti Latini alla pescatora. Piatti “pensati”, piatti fatti con amore e con la testa, che incontrano il gusto di palati che oggi sono sempre più esigenti. E se Vittoriano e Riccardo si dividono onori e oneri della cucina e lavorano in affiatato tandem, la sala è il regno di Daniele e Barbara. Un tempo il servizio era fatto al vassoio, erano i tempi delle tavolate e delle comitive domenicali, ora le pietanze arrivano impiattate come Dio comanda, perché anche l’occhio vuole la sua parte.
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La merenda

"Il Tempo" - gennaio 2002

 
La merenda sta all’Italia come il brunch sta ai paesi anglosassoni. Da nord a sud, con varianti minime, la merenda ha i suoi riti e i suoi miti. In Piemonte la chiamano “merenda sinoira” e si fa all’aperto, in giardino o in campagna, dalla primavera alle prime brume d’autunno; stessa storia per quanto riguarda il Friuli e la Toscana. Ci si mette attorno a un tavolo, poche cose cose ma buone; pane, salame, formaggio, olive e verdurine sott’olio. Non ci sono né spremute di frutta né caffè. Ci vuole il vino. Che può essere bianco oppure rosso, secondo quello che c’è da mangiare , ma dev’essere buono. Meglio ancora se buonissimo. La merenda è un momento di aggregazione ( come s’usa dire adesso ) che non ha eguali. Di fatto ci si ritrova con le persone che ci stanno più simpatiche, che sentiamo amiche o che in qualche modo consideriamo simili a noi. Tanto per dire a merenda ci si sente un po’ più liberi, nel senso dell’etichetta. Intanto vanno bene pure i tovaglioli di carta, salvo i bicchieri che hanno da essere di vetro trasparente, meglio ancora se sono di cristallo. Forse può essere considerata meno impegnativa di un pranzo o di una cena, ma ha regole altrettanto rigide e rigorose. A casa mia la merenda è ormai una simpatica tradizione che si rinnova ogni domenica o comunque nei giorni festivi. A che ora? Generalmente verso le cinque, l’ora che gli inglesi hanno consacrato al rito di the e pasticcini, cioccolata e panna. Via i televisori , niente uscite per andare al cinema. Chi ha da riprendere il lavoro il mattino dopo, lo può fare tranquillamente: la merenda al massimo alle 21 è finita, dunque c’è tutto il tempo per riposare e per digerire. Chi è in lotta con la bilancia non ha alibi: ci si può alzare per tempo e fare una bella camminata a piedi, tanto per smaltire. La merenda classica fra gli ingredienti prevedeva (e prevede) animo lieto, coltello affilato per affettare salumi e formaggi e polso fermo. A “La limonaia”, la mia casa sulle colline intorno a Camaiore, la merenda ha sostituito sia il pranzo che la cena e comincia sempre con uno stuzzichino, qualche volta c’è un primo piatto secondo estro e mercato, secondo i gusti di chi partecipa e secondo stagione. Poi c’è sempre un piatto importante che può essere di pesce o di carne e qualche volta perfino il vassoio dei formaggi con due o tre salse d’accompagnamento. Intanto le bottiglie da stappare (spesso c’è una degustazione che può essere a tema o geografica: per esempio chardonnay di varie provenienze o vini di una determinata regione) aspettano il loro turno sulla vecchia madia toscana che troneggia in sala da pranzo. A colpo d’occhio sembrano soldatini napoleonici in parata.